logoVito Maurogiovanni

Il treno

Ho un’antica, antichissima passione per i mezzi di trasporto: cavalli, carrozze, treni, auto. E’ una passione infantile, proprio perché affonda le sue origini nei tempi – lontanissimi – della mia infanzia.


Abitavo nel cuore della città, in via De Rossi. La mia casa era raggiunta dai fischi dei treni di ben due ferrovie: quelle dello Stato e quelle delle Calabro-Lucane, oggi Appulo-Lucane. I suoni delle locomotive dello Stato erano lunghi, stridenti: arrivavano a tarda sera, nel cuore della notte, all’alba, e anche durante il giorno.
Le strade allora avevano solo la colonna sonora dei venditori ambulanti che, ad alta voce e spesso cantando, lodavano la merce in vendita e soprattutto la qualità e il basso costo.
A queste voci, si mescolavano il trotto dei cavalli, il cigolio dei carri che trasportavano merci, e lo stridere delle alte ruote delle carrozze sui pavimenti fatti di pietra lavica delle nostre strade.

Quando i nonni, i fratelli grandi, i padri ci caricavano sulle spalle per una passeggiata, quando riuscivamo a entrare in un calesse che ci scarrozzava per la città e la campagna, quando prendevamo un semplice tram, quell’essere portati da qualcuno, e da qualcosa, dava un senso di felicità. Credo sia la prima bella impressione dell’infanzia: uscire dall’incertezza delle proprie gambe per andare verso il mondo, che è poi l’isolato della propria casa, quasi cavalcando su un mezzo alato che ci porti lontano dall’incertezza e dalla quotidianità.
Il mezzo alato era, qualche volta, anche un semplice carretto trainato da un compagno.
Il treno poi , con la sua possibilità di andare lontano, lontano, lontano, era il tappeto volante che portava verso lontani porti e lidi e città e magari cieli diversi.


Le operaie della Ditta Larocca, quella delle marmellate e dei pomodori, accennavano alla golosità dalla quale erano prese quando dovevano mettere, nelle scatole di latta, grosse e polpose pesche. “Ma come? C’erano pesche grosse e rosse e tenere. Quasi di velluto. Beh, le dovevamo mettere in scatola?”.
E se le nascondevano nel reggiseno, per succhiarsele poi quando andavano al bagno. E ridevano, ridevano a crepapelle quando i compagni vedevano i loro seni diventati all’improvviso pieni, straripanti e colmi di odore che sapeva proprio di frutta fresca.


I ferrovieri, diceva, sono bravi. “Noi prima di entrare in ferrovia- diceva- dobbiamo fare il capolavoro “. Il capolavoro era una ‘prova’, oggi la prova si chiama test, che doveva dimostrare l’abilità e la prontezza manuale e finanche l’ingegno dell’aspirante. Il macchinista così aveva preparato chissà quale congerie : la inseriva al momento opportuno e la locomotiva acquistava quella velocità necessaria a farle superare i ritardi.

Era in gamba, quel macchinista-inventore. Molti colleghi lo tenevano d’occhio, anzi erano andati a spiare sulle sue locomotive. Non avevano però mai scoperto cosa fosse quella invenzione che lo faceva arrivare sempre in orario.

rotaie


I racconti erano anche sospesi fra l’elogio del compagno ritenuto caro e la pesante ironia per coloro che non ritenevano amici. E parlavano dello scambiarsi delle colazioni ma anche dell’arte di far scomparire le più succulente e consumarle poi in barba a chi l’aveva gelosamente portata e nascosta nel suo armadietto.

Racconti di brava gente e risate e risate a non finire quando vedevano i militi della polizia ferroviaria – in quel tempo organizzata in seno alla Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale, cioè un’istituzione politica del regime- che vigilavano sui binari scattare rigidamente sull’attenti e presentare le armi al passaggio del treno. Anche perché quell’impettito saluto era accolto dalle pernacchie e dalla sghignazzate dei viaggiatori salutati con quella marziale esibizione di armi.

E raccontavano di donne fascinose che viaggiavano nei treni nella notte, di misteriose viaggiatori- spie? o giocatori di azzardo? – che occupavano i wagons-lits o le carrozze restaurant, di bambini trovati soli per viaggi lontani, lontanissimi.


Il fascino del treno trovava così, anche in quei racconti che all’alba, o in pieno giorno e anche nelle tarde serate del caffè, quegli uomini che facevano viaggiare i convogli ferroviari narravano alla gente che poco sapeva delle cose del mondo.

Ma arrivò anche il tempo in cui incominciammo ad andare per treni.


Fu quando mio fratello partì soldato e andammo tutti alla Stazione Centrale da dove partivano i treni che andavano lontano.

Mio fratello doveva raggiungere La Spezia, era marinaio di leva.

Tutta la famiglia lo accompagnò alla stazione che allora era coperta da una grossa tettoia: e tutto, lì sotto, sembrava scuro, i rumori erano assordanti, il fumo soffocante; e tutto si rivestiva di nero, anche il bianco fumo delle vaporiere .

Il convoglio era stracolmo di ragazzi, tutti i parenti speravamo che la partenza fosse ritardata, così potevamo vedere ancora mio fratello al finestrino, il naso arricciato per non far apparire le lacrime.

Bari-La Spezia

Avevo cinque anni, parlavo il dialetto, non andavo a scuola e non conoscevo le città. Ma era incominciato il tempo anche per i nostri viaggi partendo da quella che veniva indicata come la Stazione Centrale.

Non era lontana da via De Rossi: ce ne accorgemmo quel giorno della partenza di mio fratello e potemmo vedere che sorgeva in una grande piazza. Questa imponenza confermava che di lì si partiva per i viaggi importanti: ecco così quello di mio fratello che di lì era partito per andare a fare il militare.

La Valigia delle Indie